Team Virtuali e Web 2.0

Comunità virtuali: Rischio o opportunità? Dialogo tra Carlo Carnevale Maffè (Università Bocconi) e Marc Vos (Boston consulting group): è venuto il momento di fare un corretto risk management delle comunità.

C’è in giro voglia di collaborazione, ma anche di rivoluzione. I consumatori, che non vogliono più essere solo clienti, hanno trovato nel web 2.0 strumenti potentissimi per aggregarsi in social network di ogni tipo. E, dall’alto della loro competenza e del loro numero, hanno cominciato a interloquire con le imprese e, in alcuni casi, a farsi impresa essi stessi. Nei settori che comprendono processi digitalizzabili nulla sarà più come prima – anzi, già oggi le cose stanno cambiando, come dimostrano Marc Vos, partner e managing director di Boston consulting group, e Carlo Alberto Carnevale-Maffè, docente di strategia aziendale alla Sda Bocconi, in questa conversazione. Cambiano le regole del gioco, crolla il monopolio delle imprese sull’offerta e si creano spazi per nuovi modelli di business, tanto che un’industria semplice, come quella delle t-shirt, può trasformarsi in una miniera d’oro.

Quella del web 2.0, ammoniscono Vos e Carnevale, è un’onda che, se presa al momento giusto, può portare davvero lontano. Ma contiene una forza ancora sottostimata e, per chi non comprende le regole del gioco, può trasformarsi in un terrificante tsunami, capace di mettere fuori mercato anche le imprese più grandi.

Perché vi occupate di web 2.0?

MARC VOS Per un motivo personale e uno di business. Personalmente mi affascina il fatto che tanta gente voglia contribuire in modo determinante a un bene comune difficilmente definibile. Poi cerco di tradurre questa nuova realtà in opportunità di business.

CARLO ALBERTO CARNEVALE Per i miei studenti. Quando nove su dieci di loro sono su Facebook e consultano Wikipedia, non è il caso di far finta di niente. E poi per chi studia i processi manageriali il web 2.0 comporta profondi cambiamenti organizzativi che meritano attenta analisi.

Ma non c’è esagerazione sulla reale consistenza del fenomeno?

VOS In alcuni casi, come è accaduto per Second Life nella seconda metà del 2007, certamente sì, ma ciò non deve portare a sottovalutare l’importanza di ciò che rimane. Non possiamo ignorare, per esempio, che in poco tempo, grazie all’application tool messo a disposizione da Facebook, 100.000 persone hanno contribuito alla realizzazione di 3.000 applicazioni. Il tutto sulla spinta della ricerca di reputazione, di identità, di riconoscimento o solamente per puro divertimento. È affascinante.

CARNEVALE È la regola dell’1-9-90. Su 100 visitatori di un social network, uno è davvero creativo, nove interagiscono in qualche modo, gli altri 90 sono fruitori tradizionali. Ma i social network su web 2.0 sono un fenomeno originale, che necessita di misurazioni più sofisticate. La loro esplosione è indice di un possibile “market failure” nel campo dei beni simbolici: le imprese sono molto efficaci a produrre beni e servizi, ma molto meno capaci di produrre identità. I loro mission statement, le dichiarazioni di valore sono spesso generiche se non ipocrite, mentre i social network riescono a creare identità e senso di appartenenza in modo molto più efficace e credibile. Le imprese si sono specializzate nei gradini più bassi della piramide di Maslow e sono efficacissime nel risolvere i bisogni materiali, ma non riescono con altrettanta efficacia a servire i bisogni identitari e di realizzazione personale. Sono forti nel valore, molto più deboli nei valori.

VOS Mentre i social network creano anche valore, attraverso il numero – più sono i partecipanti più vale la community.

CARNEVALE Parlerei di intensità e frequenza relazionale, più che di semplice appartenenza: non basta contare gli iscritti, vanno pesate le loro interazioni.

VOS Vero: il coinvolgimento in una community di appassionati è più intensa di quella in community larghe, ma un po’ indistinte, come MySpace.

CARNEVALE Non solo. Distinguerei anche tra due nature economiche dei social network su web 2.0, che si riflettono sul loro valore. Comunità come YouTube hanno natura semantica, nel senso che tu puoi contribuire con nuovi contenuti, ma secondo regole date. Altri sono fenomeni sintattici, nel senso che modificano anche le regole di produzione. Pensiamo a Linux, il sistema operativo sviluppato da una comunità di programmatori, o alle miniapplicazioni software programmate dai membri di Facebook. È chiaro che si tratta di gruppi più ristretti, perché necessitano di competenze avanzate, ma danno vita a qualcosa che sconvolge il mercato. Direi che il valore patrimoniale di un social network è primariamente funzione dei suoi contributi sintattici, mentre la sua capacità di generare valore economico, per esempio sotto forma di spesa pubblicitaria, è correlata al volume di partecipazione semantica.

Ma, oggi, qual è il ritorno economico del web 2.0?

CARNEVALE È un ritorno spesso sottostimato, perché si tende a ragionare in termini di semplici ricavi. E invece il valore economico del web 2.0 deve essere misurato secondo tre dimensioni: ricavi, riduzione dei costi e patrimonio creato. Apple ha ridotto drasticamente il suo budget di marketing, perché glielo fa il social network degli appassionati; in campo farmaceutico, Innocentive riesce a esternalizzare i costi di ricerca, parcellizzando i compiti a tal punto da poter essere portati a termine anche da una comunità non organizzata; LinkedIn è un sistema per ridurre i costi di recruiting; Amazon deve investire molto meno nello staff editoriale perché le recensioni gliele fa il pubblico. È una questione di incentivi e sarà interessante vedere se potrà funzionare Knol, l’enciclopedia alternativa a Wikipedia progettata da Google, in cui gli estensori saranno ricompensati con una quota dei ricavi pubblicitari collegati alle singole voci.

VOS Si muove qualcosa di interessante anche in Italia. Basti pensare al caso H3G, che ha trovato il modo di far fare ai ragazzini appassionati il lavoro di customer care. Chi risponde alle domande dei clienti vince punti, che possono essere trasformati in traffico telefonico. Un altro modello interessante sperimentato da H3G è quello dello user generated content. Gli utenti possono caricare sul portale mobile i loro filmati, e ricevono revenue share in funzione di quanto traffico il filmato ha creato sul sito. C’è chi è già arrivato a 6.000 euro.

Ma veniamo all’aspetto patrimoniale.

CARNEVALE È chiaro che gli utenti sono un asset intangibile, che ha un valore, come hanno dimostrato le cifre a cui sono stati ceduti siti come YouTube. Ma l’aspetto più interessante, e spesso sottaciuto, è che i social network sono anche una liability per le imprese. Se non vengono seguiti a dovere, ti si possono rivoltare contro. Direi che in bilancio andrebbero persino previsti degli accantonamenti per i costi di manutenzione dei network sociali. Andrebbe fatto del serio risk management.

VOS Chi ha cercato di cavalcare l’onda del web 2.0 senza consapevolezza ne ha sofferto. Penso a un magazine italiano, per esempio, che ha recentemente ristrutturato il suo sito per consentire il feedback dei lettori. Be’, i contatti si sono dimezzati, perché il suo pubblico non era un pubblico 2.0; non cercava interazione, ma solo lettura. Questo non deve far dimenticare i grandi successi, però, come Threadless, un sito che aggrega appassionati di design per progettare le t-shirt, far valutare dal pubblico i modelli e mettere in produzione i più votati. Ebbene, dietro c’è un’impresa di una decina di persone che, grazie agli enormi margini delle t-shirt, vanta un margine di un milione di dollari a dipendente. Cosa inimmaginabile per le società tradizionali in questo settore.

CARNEVALE È finito il monopolio dell’offerta da parte delle imprese. Con web 2.0 e i social network si fanno sempre più cose, anche processi produttivi elementari, purché alla base ci sia un processo digitalizzabile, come la progettazione delle t-shirt nel caso di Threadless. I consumatori non fanno più solo i consumatori e, nelle reti, finiscono per svolgere attività multiruolo. Pensiamo a Zopa, il sito che consente di ricevere prestiti da privati, anziché dalle banche. Qui gli utenti hanno sottratto agli istituti di credito anche la funzione di valutare la solvibilità dei mutuatari. E in altri casi le reti sociali diventano concorrenti delle imprese.
VOS Direi più coproduttori che concorrenti. Chi riesce a farsi aiutare dai consumatori raggiunge ottimi risultati, ma chi non capisce le regole del gioco innesca un circolo vizioso. Se non si partecipa, per esempio con un proprio blog, alle conversazioni su se stessi, queste conversazioni avranno ugualmente luogo altrove.

È più difficile nascondersi, dunque?

CARNEVALE Qualche anno fa chi riusciva a nascondersi evitava le critiche e la marginalizzazione, ma oggi non è più possibile. Con il primo internet si poteva anche barare, perché le interazioni erano occasionali e si poteva falsificare la propria identità. In una rete sociale è impossibile: le interazioni sono continue e se bari prima o poi ti beccano.

In alcuni campi, come quello dei media, i social network stanno erodendo le quote di mercato degli operatori tradizionali.

VOS Il tempo dedicato ai media è in crescita in tutto il mondo, perché, anche grazie al web, i media non si cannibalizzano solo tra loro, ma erodono anche altri spazi, come quelli di interazione sociale fisica. È vero che la realtà si va frammentando e che i media tradizionali, anche quando hanno una versione web, sono ancora in grande difficoltà nel trovare modelli di business alternativi all’advertising. Eppure si è scoperto recentemente che circa il 30% degli utenti americani di MySpace dichiara di fidarsi dei consigli della community stessa per gli acquisti online. Questo fatto apre un’opportunità di ragionamento su altre linee di ricavi al di là dell’advertising per le community.

CARNEVALE E non solo. MySpace aiuta News Corp, che lo possiede, a ridurre i costi di scouting degli artisti che il suo ramo musicale dovrebbe altrimenti sostenere. Su MySpace si è creato un fenomeno musicale come il giovane libanese Mika. Se, poco più di 10 anni fa, per le Spice Girls si poteva parlare di organismi musicali geneticamente modificate, anche Mika è in un certo senso il risultato di un processo di laboratorio, ma uno in cui tutti essere partecipare.

VOS Ma i media, in generale, sono ancora lontani da questa mentalità. Nel 90% dei casi pensano in termini di pubblicità tabellare, senza nemmeno pensare di adeguarla al profilo del lettore. In senso positivo penso, invece, a un sito come Ciao.it, dedicato alle recensioni online dei prodotti, che possono però servire anche alle imprese come benchmarking.

Altri casi italiani di successo?

VOS Si può pensare alla Fiat 500, il primo tentativo italiano in grande stile di fare una campagna web 2.0, o a Ducati. Questi, insieme a H3G, sono esempi italiani di valore assoluto.

CARNEVALE In Italia ci sarebbe uno spazio infinito, perché è la patria dei beni simbolici, dalla moda al cibo, il cui valore deriva quasi totalmente dal social network. Penso alle iniziative di aziende come Fornarina e Diesel, ma anche a innovazioni tecnologiche come Certilogo, un’azienda che offre servizi di brand protection per prodotti di alta qualità, che sta offrendo opportunità di interazione ai consumatori intorno alle più pregiate bottiglie di Brunello o di aceto balsamico tramite uno codice speciale chiamato Digital Dna.

Che futuro immaginate per il web 2.0?

VOS Intanto, web 2.0 non è un tema di discussione in prospettiva. È una realtà. Sta già impattando molte aziende e molte altre ne impatterà, ma queste sono ferme. E invece questo è il momento di muoversi, perché è un tipo di gioco in cui il vincitore si accaparra tutta la posta. Chi esita rimarrà indietro.

CARNEVALE I social network dovranno essere inseriti nella teoria economica e organizzativa, perché domanda e offerta, con gli strumenti messi a disposizione dal web 2.0, non sono più indipendenti ma sempre più interdipendenti; inoltre cambia la natura dei processi produttivi di molti beni e quindi va ricercata una appropriata modalità di misurazione del valore economico delle reti, che dovranno passare attraverso la valutazione della membership function, una funzione che non valuti solo il numero dei nodi di una rete, ma anche il loro livello di coinvolgimento e interazione.